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 09/12/2008 - Recensione di '68 Napoletano su Il Manifesto di oggi

Sul numero di oggi del quotidiano Il Manifesto è apparso un lungo articolo dedicato a '68 Napoletano di Carmen Pellegrino.
In particolare viene riportata integralmente la prefazione del prof. Giovanni De Luna:

1. Ci sono luoghi che sono entrati stabilmente nella mappa del ’68 italiano. Napoli non è tra questi. Torino e Palazzo Campana, Milano e la Statale, Roma e valle Giulia e ci si ferma lì. Quasi che i giorni convulsi e febbrili del ’68 abbiano riproposto il lungo periodo di una questione meridionale sprofondata in un tempo quasi immobile, fissando per il Sud i tratti di una irrimediabile separatezza, di una sua chiusura in una storia altra e diversa rispetto a quella nazionale. Nell’alluvione di titoli che ha accompagnato le celebrazioni per il quarantesimo anniversario c’è stato ampio spazio per i ricordi, le recriminazioni, le accuse, i rimpianti ed è ovvio che tutto questo abbia contribuito solo a rafforzare il senso comune che con il tempo si è sedimentato su quei lontani avvenimenti, senza riuscire a sradicare le memorie dagli opposti stereotipi della demonizzazione e dell’agiografia. Troppa memoria e poca storia. Questo è il male di cui soffre il ’68. Troppi ricordi e pochi documenti, troppi sentimenti e poca filologia. Così, nonostante una bibliografia straripante, tranne rare eccezioni, non esiste ancora una storiografia sul ’68, almeno non esiste una interpretazione che dia conto fino in fondo della sua storicità: da un lato libri che avviano un grottesco processo a una generazione di scansafatiche che ha prodotto guasti senza pagare nessun prezzo e anzi costruendo molte carriere di successo; dall’altro il ricordo compiaciuto di anni “formidabili”, il tumultuoso affollarsi delle memorie dei protagonisti, tutti più o meno incapaci di sottrarsi al fascino di un passato che “non passa”. C’è, in questo senso, un forte bisogno di “documenti” sul ’68, la necessità di mandare in frantumi i “monumenti”, rendendolo finalmente accessibile a una conoscenza che non sia il riflesso condizionato dell’uso pubblico della storia. Le testimonianze dei protagonisti possono essere importanti ma solo se le si mette a confronto con altre “tracce” di quel passato, se si ha la capacità di avviare una ricerca che abbia il coraggio e la determinazione di affrontare un corpus variegato di fonti, complesse ed eterogenee esattamente come il movimento che servono a studiare.

2. Per reintrodurre Napoli e il Sud nella storia del ’68 occorreva quindi sconfiggere le banalità e le semplificazioni, sottrarsi alla cappa asfissiante dei regolamenti dei conti e delle invettive affidandosi alla linfa vitale della ricerca e dell’approccio storiografico. Questo è il libro di Carmen Pellegrino, un libro di chi ricordi non ne ha perché non era ancora nata, di chi per conoscere il ’68 è stato costretto a studiarlo e forse proprio per questo è stato in grado di reintegrare Napoli nella geografia di un evento compiutamente nazionale. Alla fine, quello che il libro ci restituisce è il senso di una straordinaria uniformità con le altre esperienze e con gli altri luoghi, esaltando tuttavia alcune specificità che appartengono in esclusiva ai caratteri originari di quella città.
Il primo elemento unificante è la cronologia. Il libro si sofferma solo sugli esordi degli “anni ’68”, raccontandoci il triennio 1967-1969 e lasciando affiorare una catena di eventi che si ripete uguale, a Pisa come a Trento, a Venezia come a Pavia: la mobilitazione contro la legge 2314, il susseguirsi di occupazioni, controcorsi, assemblee, sperimentazioni didattiche, sgomberi, cortei, scontri con la polizia e con i fascisti. Sì, la presenza dello squadrismo a Napoli era più marcata che in altre situazioni, la violenza dei fascisti era molto più aggressiva che a Torino e a Milano; per il resto però il percorso degli studenti resta sostanzialmente lo stesso. Anche a Napoli si parte da rivendicazioni tutte interne all’Università, di stampo ¬¬– si potrebbe dire – riformista o corporativo (come a Torino, la protesta fu innescata dai progetti di edilizia universitaria che comportavano il trasferimento delle sedi), anche lì le prime manifestazioni hanno il timbro di una spontaneità che travolge le organizzazioni tradizionali degli studenti, quelle che si limitavano a replicare la politica dei partiti. Come in tutta Italia, la traiettoria del movimento è quella che parte dall’interno delle aule occupate e dai temi della didattica per poi allargarsi verso i più vasti orizzonti degli scioperi operai, delle lotte per la casa, della mobilitazione per il Vietnam, uscendo nelle strade e nelle piazze, inserendosi da protagonista nei fermenti culturali che in quel biennio 1967-1968 affollavano Napoli con le conferenze di Roland Barthes all’Istituto Francese, le perfomances del Living Theatre, gli incontri con Allen Ginsberg, le mostre di Kounellis e Beyus, ecc..

3. Soprattutto il movimento napoletano condivide con quello delle altre città una dimensione politica fortemente inclusiva, che ne rappresenta forse il tratto più significativo e innovativo. Diciamolo subito. Nella loro stragrande maggioranza i militanti si autorappresentavano come portatori di una ideologia di rottura, trasgressiva, dirompente; molti si dichiaravano esplicitamente rivoluzionari. Quelli più consapevoli replicavano il modello classico del militante rivoluzionario novecentesco, lasciando che la loro scelta di vita divenisse totalizzante, assoluta, tagliandosi i ponti alle spalle rispetto alle loro provenienze sociali, azzerando ogni soluzione di continuità tra la propria dimensione esistenziale e quella politica. Forse però ora è arrivato il momento di scavare dentro quell’autorappresentazione, lasciandone emergere contraddizioni e incertezze, forzandone la monumentalità a cui è stata consegnata dai ricordi dei protagonisti. In questo senso credo che nessuno degli studenti di allora avrebbe potuto riconoscersi nelle considerazioni di Bobbio sulla dimensione inclusiva della democrazia: “la democrazia è inclusiva in quanto tende a far entrare nella propria area gli ‘altri’ che stanno fuori per allargare anche a loro i propri benefici… il processo di democratizzazione, dal secolo scorso a oggi, è stato un processo graduale di inclusione di individui che prima erano esclusi. Una democrazia non può essere esclusiva senza rinunciare alla propria essenza di società aperta”. Così come mi sento di escludere recisamente che qualcuno conoscesse la definizione di Thomas Marshall della cittadinanza come luogo in cui si realizzano le condizioni economiche, politiche e sociali della piena appartenenza di un soggetto a una comunità organizzata, un ambito quindi in cui i meccanismi dell’inclusione contribuiscono alla realizzazione effettiva non della semplice titolarità giuridica ma di aspettative sociali collettivamente riconosciute come legittime, espressione di una solidarietà pubblica fruita e condivisa da tutti i cittadini. Alla democrazia si guardava invece come a una finzione giuridica, una “maschera” indossata per l’occasione da uno Stato che voleva a tutti i costi celare il proprio volto autoritario e liberticida. Eppure… Eppure se un segno distintivo è possibile riconoscere al movimento nel suo complesso (che si trova intatto a Napoli come a Torino), è proprio la sua spinta inclusiva, la sua ferma determinazione a lottare contro le separatezze, i compartimenti stagni che frammentavano la società borghese, le riserve indiane in cui agli studenti non era possibile incontrare se non altri studenti, agli operai altri operai, e così via.

4. La Napoli di allora, ricordiamolo, si presentava come una piramide rigidamente sezionata, un vertice ristretto, una piccola borghesia “saldamente ancorata ai suoi privilegi, arroccata nelle sue posizioni, completamente separata dal ceto operaio e dal sottoproletariato anche nella geografia residenziale della città”, un sottoproletariato angustiato dalla miseria, dal degrado, dallo sfruttamento. Era una Napoli, per dirla con Gloria Chianese, profondamente gerarchica, con divisioni di classe ben sedimentate. Vi vivevano 35 mila studenti universitari, sparsi nel perimetro cittadino, arrivati dalla Calabria, dal Cilento, da altre zone del Sud, soli, ansiosi – se potevano – di ritornare a casa per il weekend, senza luoghi dove incontrarsi. Al centro di questo arcipelago di isole di incomunicabilità, troneggiava un’Università che – ricordiamo anche questo – aveva ancora l’assetto che il fascismo aveva definito nel 1933.
Colpisce, così, che nella ricostruzione di Carmen Pellegrino la prima rivendicazione avanzata dalle associazioni di professori incaricati, assistenti e studenti – già nell’aprile del 1965 – riguardi proprio il problema della nuova collocazione dell’Università, con la richiesta di una sistemazione unitaria delle varie sedi così da rendere possibili i rapporti interdisciplinari, superando la logica delle facoltà “indipendenti e separate”. Ed è significativo il modo con cui a Napoli il movimento riuscì a sconfiggere quella che allora fu definita la “filosofia del pollaio”, la proposta cioè di costituire un sindacato studentesco che mirava a rinchiudere la protesta nei recinti della sindacalizzazione, delle rivendicazioni accademiche, rinunciando – come si diceva – “a intervenire sulle contraddizioni di fondo della società”. Vale la pena ribadirlo. In fondo quello contro cui il movimento indirizzò le sue lotte – al Nord come al Sud – fu quanto rimaneva nel profondo della nostra società del vecchio principio gerarchico autoritario del “ciascuno al suo posto” ereditato dal fascismo, che lo aveva posto alla base della sua struttura totalitaria e repressiva. Se all’interno dell’università si trattava di spezzare le barriere disciplinari e accademiche, dando vita a una comunità studentesca in grado di affrontare collettivamente disagi e speranze, delusioni adolescenziali e impazienze progettuali, rifiutando ogni tipo di delega, battendosi per la pariteticità degli organismi rappresentativi, puntando a uno svecchiamento della didattica e dei corsi, all’esterno la mobilitazione studentesca assumeva i contorni ingenui ed esaltanti di una scommessa sul mondo.
Una scommessa nutrita dai temi ideologici dell’internazionalismo proletario, attraversata da confusi riferimenti alle lotte del “terzo mondo”, spesso sepolta dalla cappa plumbea di formule marxiste-leniste che a Napoli furono recepite con un dottrinarismo e un’ astrattezza teorica forse ancora più forte che altrove. Ma una scommessa a cui non si può negare una grande generosità, un impegno profuso a piene mani che proprio a Napoli ebbe risvolti tutt’altro che velleitari. Certamente, quando si decise di uscire dai recinti della “riserva indiana” si restò impigliati in ingenuità che oggi risultano francamente imbarazzanti. Il “tema unificante” tra l’Università e la fabbrica, tra le lotte degli operai e quelle degli studenti, fu ad esempio trovato nell’”autoritarismo” (“coloro che vogliono decidere tutto nell’Università sono gli stessi che vogliono decidere tutto nelle fabbriche!”), sfociando in una “piattaforma rivendicativa” in cui il controllo dei professori sugli studenti attraverso le frequenze e gli esami veniva posto sullo stesso piano con la minaccia di licenziamento usata dai padroni contro gli operai. Fu più facile con i “senzatetto”. Meno ideologia e più partecipazione, meno slogan e più mobilitazione diretta. Nell’occupazione delle case gli studenti partecipavano alla nascita di un altro tipo di comunità, diversa da quella che avevano sperimentato nelle aule universitarie. In quelle periferie desolate, tra figli di sottoproletari, disoccupati, cartonari, pescivendoli, ambulanti, le lotte davano vita a forme di solidarietà prima impensabili, scrostavano muri di diffidenza, seppellivano vecchi rancori o gelosie, rimodellando in profondità una dimensione collettiva mai conosciuta, un protagonismo collettivo mai sperimentato. Fu un fiume in piena in cui precipitarono differenze di genere, chiusure familistiche, frammentazioni corporative, nel nome di un egualitarismo vissuto più come dimensione esistenziale che scelta ideologica. Il momento più significativo dell’unità tra studenti e operai fu la partecipazione dei primi alle lotte (il grande sciopero generale dell’8 novembre) per l’abolizione delle zone salariali, quelle che prevedevano che lo stesso lavoro fosse pagato in maniera diversa a seconda della collocazione territoriale, sancendo la netta inferiorità dei salari meridionali. I braccianti uccisi dalla polizia ad Avola, il 2 dicembre 1968, lottavano proprio per ottenere la parità retributiva delle due zone nelle quali era divisa la loro stessa provincia.

5. In una Napoli in cui – come ci racconta Carmen Pellegrino attingendo alle cronache dell’epoca – le ragazze vengono inseguite dalla polizia perché scappano con i capelloni, gli stessi capelloni scandalizzano i benpensanti in Piazza Plebiscito, in una città dove la promiscuità dei vicoli restituisce immagini arcaiche e destoricizzate, di colpo gli scugnizzi cominciano a partecipare alle manifestazioni per il Vietnam, leggono giornaletti improvvisati che parlano di loro (uno, citato nel libro, si chiama “La zoccola”), scelgono come propri eroi ragazzi che non sparano, rubano o uccidono ma si limitano a sbeffeggiare l’ordine e le gerarchie degli adulti come Agostino ’o pazzo in sella alla sua moto. Per un breve, intenso periodo Napoli non è più la stessa. Gli studenti pendolari ritornavano a casa non più per passare il weekend ma per parlare delle loro lotte. E il rapporto centro-periferia si rimodellò seguendo le rotte della mobilitazione, con la protesta che dall’Università rimbalzava sui licei, sulle medie, sugli istituti professionali. Non solo a Salerno, ma nei paesi abbarbicati sull’osso del Mezzogiorno, il ’68 arrivò attraverso il pendolarismo degli studenti. Fu così tra Napoli e il resto del Sud, ma soprattutto fu così anche tra il Nord e il Sud. Alla fine, quando la rissa delle memorie contrapposte si placherà, bisognerà pur parlare dei “ragazzi che andarono al Sud”. Arriverà pure il momento di ricostruire quelle scelte generose e coraggiose che coinvolsero non solo gli “studenti fuorisede” ma anche quelli che partirono per andare giù a “fare lavoro politico”, come si diceva allora, ma in realtà contribuendo a rimescolare differenze e separatezze, avvicinando il Sud al Nord nella concretezza delle loro esperienze quotidiane, nella loro disponibilità a vivere la vita degli altri, in luoghi sconosciuti alla geografia del turismo ma divenuti allora importanti nella mappa dei conflitti sociali (Gela, Taranto, Reggio Calabria, l’agro nocerino sarnese, ecc…). Agli spostamenti dal Sud al Nord in cerca di lavoro si aggiunsero quelli in senso contrario dettati dalla militanza politica. Fu una vicenda che interessò soprattutto i giovani attivisti dei gruppi extraparlamentari e si sarebbe sviluppata compiutamente nei primi anni ’70, ma che scaturì proprio dai giorni convulsi del ’68, anche di quello napoletano.

6. A Napoli, come nel resto d’Italia, quei giorni erano destinati a finire. Ci misero molto, molto più che negli altri paesi europei, consegnando alla storia un ’68 italiano più lungo degli altri. Però finirono. Erano serviti a qualcosa ? Nel libro di Carmen Pellegrino è citato un dato su cui vale la pena riflettere. Nel popolare quartiere di San Lorenzo, al referendum monarchia/repubblica del 2 giugno 1946 la repubblica strappò un misero 16,8%. I consensi straripanti alla monarchia riproponevano un blocco sociale fondato sull’antica promiscuità dei vicoli in cui si affollavano nobili e plebei, insieme avviluppati nelle reti della clientela e della protezione camorristica. Nel 1974, al referendum sul divorzio, il fronte divorzista totalizzò il 56,4%. A San Lorenzo, a Napoli e in tutta Italia fu il risultato più significativo ottenuto dai fermenti innovativi che avevano investito il sistema politico italiano in quegli anni. Poi quei fermenti, man mano che il vento del ’68 affievoliva il suo soffio, si stemperarono precipitando in un presente in cui Napoli oggi celebra in Scampia il ripristino delle separatezze e delle chiusure.
All’inizio degli anni ’80 il capoluogo campano diventò una città-regione, inglobando, fagocitando tutti gli spazi intermedi, i centri minori e le città medie più vicine, tutte confluite in un unico arcipelago metropolitano. Questo mostruoso agglomerato ha assorbito le periferie senza integrarle, facendo nascere dei veri e propri quartieri-Stato, una costellazione di feudi autonomi, segregati dal resto. A Scampia, a Secondigliano domina una minoranza violenta che ostacola l’integrazione, chiudendosi al contesto urbano per tutelare l’apartheid criminale. Si innalzano recinzioni con muraglie di cemento armato, si costruiscono bunker sotterranei, si installano videocamere di sorveglianza, si mettono guardie armate all’ingresso dei quartieri. I palazzoni di Scampia si offrono allo spettatore in una loro disperata “separatezza”, con i propri riti, le proprie gerarchie, un loro apparato della forza a presidiare il territorio, le proprie leggi applicate con feroce determinazione. Non c’è lo Stato. Lo si intravede appena nelle inutili ronde delle “pantere” della polizia o nell’intervento delle ambulanze che raccolgono i cadaveri della guerra contro gli “scissionisti”. Non ci sono gli strumenti di “inclusione” con cui lo Stato allarga la sfera della cittadinanza, non ci sono le scuole. Gli scugnizzi che manifestavano per il Vietnam ora pascolano tutto il giorno intorno agli adulti spiandone le mosse per imparare il mestiere, per prepararsi a diventare ggente ’e miezz’a via. Il ’68 è finito davvero."

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